Questo verso del De contemptu mundi di Bernardo di Cluny(*), ripreso nel Nome della rosa, traslandolo, da Umberto Eco, m’ha sempre fatto pensare alla caducità del tempo, al trascorrere inesorabile degli eventi e all’effimero essere delle cose. In un mondo come il nostro, che tutto consuma in fretta, senza troppi scrupoli, senza troppe domande, bisognerebbe riconsiderare il mondo che i nostri padri hanno costruito per noi, che noi stiamo costruendo per i nostri figli. M’hanno sempre commosso, forse in una stupida consapevolezza dell’essere più fortunato in alcuni casi, di potermi trovare nelle medesime condizioni in altre, le persone in difficoltà fisica od economica che incontravo. Oggi più che mai, forse perché vivo in prima persona una condizione di difficoltà oggettiva e, quindi, sono ancor più recettivo nei confronti di tali fenomeni umani in primis e sociali secondariamente, mi rendo conto di quanto poco senso abbia il fatto che gran parte dell’umanità, dal barbone all’angolo della strada al bambino che sta morendo in Africa o nel lontano oriente, debba soffrire a causa di una piccolissima porzione di quella stessa umanità che non si cura minimamente degli esseri con cui condivide questo brevissimo cammino.
(*) “La Roma, che era, [ora] esiste solo nel nome, noi possediamo soltanto nudi nomi”