Se ne stava lì seduto con le mani aperte a conchiglia sotto il viso e le braccia poggiate sulle gambe piegate verso il petto; fermo, con lo sguardo fisso ed incantato a guardare dall’altra parte della strada.
Era proprio affascinante, pensava fra sé e sé, quel fantastico edificio con la grande cupola di vetro e cemento che ospitava l’Hotel Kampinski. Hans lo aveva sempre guardato come fosse un parco giochi e aveva mille volte fantasticato d’essere un facoltoso uomo d’affari che puntualmente s’aggirava fra quei saloni con fini broccati alle pareti e lussuosi divani di velluto rosso porpora sparsi per i vari saloni che conteneva al piano terra.
Stava un po’ lì a guardarlo, con l’aria sognante, appollaiato su di un basso muretto di mattoni rossi che delimitava un’aiuola, proprio dall’altra parte della strada.
Intanto lo sferragliare delle ruote del tram sui binari si mischiava al rumore degli zoccoli dei cavalli che trascinavano lussuose carrozze. Si alzò e si diresse verso la Leipziger Straße. Lo divertiva molto giocare correndo attorno alle colonne dei due “tempietti greci” costruiti diverso tempo prima da Schinkel e che avevano delimitato un tempo la Potsdamer Tor; ma questo Hans non lo sapeva.
S’era fatto mezzogiorno ed era l’ora di andare a vedere i treni che arrivavano alla stazione ferroviaria, proprio lì difronte. Com’era grande e maestosa! Anche se a dire il vero il gusto del dodicenne Hans era più vicino, per così dire, alla bellezza dell’altra stazione ferroviaria posta poco più a sud di quel posto: l’Anhalter Bahnhof. Oh se era bella la stazione fatta di mattoncini rossi! Sembrava quasi un palazzo di un re d’altri tempi.
Soprattutto lo incantavano quelle due statue poste in cima all’entrata, “il giorno” e “la notte”, che indifferenti presidiavano al continuo via vai delle innumerevoli persone in arrivo o in partenza per chissà dove. D’altra parte era, quella, la “Porta del sud”, quella che consentiva di andare giù, fino a Vienna o addirittura Roma, Napoli oppure Atene. Che bello sarebbe stato poter partire per quei luoghi, pensava Hans.
Un altro giro della piazza, passando davanti ai lussuosi Palast e Fürstenhof Hotel, e poi via verso casa. Non prima però di aver fischiato al vigile posto là, in alto sulla colonnina del primo semaforo d’Europa. Com’era bella la Potsdamer Platz. Già!
Poi venne la guerra e Hans partì per il fronte. Fu fortunato perché, al contrario di molti altri suoi compagni di giochi di quei giorni spensierati e felici, riuscì a tornare a casa. O forse è meglio dire a ciò che ne restava. La guerra, orribile falciatrice di uomini e speranze, aveva irrimediabilmente cambiato il bambino spensierato di una volta.
Oltre le vite di milioni di uomini, anche i posti erano fisicamente cambiati. Il giovane uomo passeggiava fra le rovine della città ed i ricordi di un tempo felice, quello in cui quegli stessi posti pullulavano di vite, di pensieri, sentimenti e grandi speranze non c’erano più. Distrutti per sempre.
Poi venne il Muro e quel luogo tanto amato da Hans divenne la più vasta landa desolata della città: la cosiddetta “terra di mezzo”. Una dozzina d’ettari di terreno senza più vita, senza bellezza, senza più anima.
Servivano solo a ricordare al mondo che la follia umana era sempre pronta a trasformare le vite ed i luoghi secondo logiche che poco avevano a che fare con i sentimenti di chi ne era stato parte integrante ed attiva.
Fu così che la vidi anch’io per la prima volta, quando venni a visitarla subito dopo la caduta del Muro. Sarà perché ho sempre amato Omero, così seguivo le orme del film di Wenders Il cielo sopra Berlino. Ero rimasto affascinato dalle scene in cui il regista faceva vedere l’antico poeta aggirarsi per quei luoghi.
Vedevo la spianata senza nulla davanti, se non i ruderi dell’Anhalter Bahnhof in lontananza, eppure sentivo che quel posto era particolare. Provavo una sensazione già vissuta in altri momenti della mia vita; era come uno struggente desiderio di vedere quella piazza in un altro tempo, piena di altra gente che aveva altre speranze, altri sogni per un altro futuro, per un’altra vita.
I tedeschi molto probabilmente tradurrebbero questa sensazione, questo struggente sentimento, con il termine Fernweh, ovvero “la nostalgia dell’altrove”. Ecco, mi mancava quest’”altrove” e lo stavo cercando con lo sguardo, girandomi su me stesso di 360 gradi.
Forse per questo attirai l’attenzione di un signore che, ad occhio, doveva avere oltre settant’anni. Si avvicinò, mi guardò bene in viso come a voler capire qualcosa, poi mi disse: «Lo sta cercando anche lei, vero?» «Cosa?», risposi io stupito. «Il senso ultimo di questo posto, quello che lo rende magico, che è ancora nell’aria. Gli altri non possono vederlo, ma io ce l’ho qui e qui» e m’indicò con una mano la testa ed il petto.
Capii subito che avevo trovato parte di ciò che stavo cercando in quel luogo. Lo guardai e gli dissi: «Piacere, Alessandro. Lei è il signor?». «Hans», mi rispose. «Bene signor Hans, che ne direbbe se ci andassimo a bere una birra? Sono sicuro che lei ed io abbiamo molto di cui parlare».

Nemulisse

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